Roma criminale, i mille misteri di una città da prima pagina

I casi più inquietanti: dall'omicidio Montesi a quello di Luca Varani e di "Diabolik"

Sabato 17 Giugno 2023 di Paolo Graldi
Roma criminale, i mille misteri di una città da prima pagina

Una passeggiata, a piedi, per incontrare i luoghi dei delitti.

Se cercate sul web trovate perfino una mappa, dettagliata, puntuale: un itinerario assai poco turistico, ma non privo d’interesse, che vi porta con meticolosa precisione nei luoghi resi famosi da fatti di sangue.  Omicidi per lo più irrisolti, tuttora avvolti nel mistero, immersi in una nebbia di dubbi, false piste, colpevoli che si sono rivelati innocenti; crimini a cui manca il nome e il volto dei colpevoli.


Di quella che chiameremo per comodità la Roma criminale si è, da sempre, scritto molto per soddisfare una fame inesauribile: giornali con resoconti sterminati, riviste a caccia di scoop, libri di rigorose ricostruzioni poliziesco-giudiziarie, saggi con l’invasione non sempre a prova di scienza di criminologi pronti a rispondere su tutto. Anche sull’impossibile.  Poi, ci è messa la televisione, gigantesco megafono mediatico, moltiplicatore all’infinito di vicende, emozioni, con l’enfasi delle immagini, delle sequenze rapite e dei suoni avvolgenti, dei volti che dalle immagini fisse delle foto dei quotidiani prendono voce, volti che si inverano. 
Le scene del crimine si animano di testimoni e di esperti che arricchiscono il racconto con gli apporti della ricerca scientifica che si gemella con le investigazioni rendendo leggibile e possibile ciò che fino a pochi anni fa era il buio assoluto. 


Il Dna, principe delle identificazioni la fa da padrone e quel che mostra e dimostra non ammette repliche. Davanti a lui, geniale scoperta dalle mille risonanze e utilizzi, non si discute, si può solo chinare la testa e accettare il suo verdetto. Ricerche dalle cronache accurate, faldoni di archivi giudiziari setacciati ma talvolta ammucchiando i fatti sporchi di sangue solo per soddisfare morbosità inconfessabili hanno arricchito gli scaffali di questo genere appassionando un pubblico sempre più vasto.

I casi che hanno fatto scuola


Su queste colonne sono passati tutti i delitti sul palcoscenico della Capitale. Per anni, e siamo nell’arco degli anni dai Settanta ai Novanta, un capocronista del Messaggero di nome Silvano Rizza, giornalista di grandissima classe, ha guidato, formato, lodato e fatto oggetto di intemerate al calor bianco intere generazioni di cronisti di nera e di giudiziaria. 
Perché scrivere di “nera” o di “giudiziaria”, allora, era un trampolino per l’intera carriera e per chissà quali altri traguardi: ogni pezzo un esame, una fatica, un rischio. 
Chi sa scrivere di un processo o di un delitto, si diceva, saprebbe anche scrivere di una finale mondiale di calcio, di un gran premio di formula uno, ma anche di una seduta della Camera dei deputati o di un Consiglio dei ministri. 
Perché, diceva Rizza, nel processo c’è tutto: il fatto, l’uomo, la ricerca della verità, la giustizia, noi tutti come ci vedono e come siamo. 
Davanti a ogni delitto, in automatico scattava una squadretta di segugi a caccia di pezzi del puzzle che poi, nelle pagine lettissime, ritrovavano una armonia, un fil rouge che legava tutti i dettagli strappati agli spifferi della Squadra omicidi, della Squadra mobile o dalle indiscrezioni, sempre anonime, catturate a palazzo di Giustizia, confidando sulla compiacenza di qualche magistrato disponibile a un discreto rapporto con la stampa. 
L’ossessione di quella stagione erano i “buchi”, notizie che apparivano sui giornali concorrenti e delle quali, in famiglia, qualcuno doveva farsi carico. Rizza, grandissimo maestro, amico severo e senza sconti, attento allo stile di scrittura e implacabile sulla verifica delle notizie («Noi non dobbiamo smentire mai nulla perché non abbiamo mai nulla da smentire: raccontiamo i fatti come sono», ripeteva senza stancarsi), pignolo fino all’ossessione sui dettagli, sulle interviste, sulle notizie in esclusiva ha contribuito al formarsi di uno stile giornalistico di altissima qualità. 
I delitti, specie se indiziari, montavano l’interesse del pubblico dei lettori. Era come un romanzo a puntate che s’arricchiva giorno dopo giorno in una attenzione e tensione crescenti. Da quella scuola del marciapiede sono uscite grandi firme e racconti affascinanti. 
«Cercate il colpevole, serve per esibire le prove del suo misfatto, questo è l’imperativo»: negli articoli si chiedeva agli investigatori di lavorare senza sosta, con tutti i mezzi disponibili. 
Così, negli anni, Roma macchiata di sangue è passata al setaccio dei suoi cronisti che ne hanno rappresentato il volto più crudele e sanguinario. Dal lontano caso di Wilma Montesi, la giovane donna abbandonata senza vita sulla spiaggia di Torvaianica all’uccisione di Simonetta Cesaroni a via Poma, passando per l’assassinio dello scrittore e regista Pier Paolo Pasolini al killeraggio di Enrico de Pedis, “Renatino”, boss della famigerata Banda della Magliana la cui storia si intreccia con la sciagurata fine del giornalista Mino Pecorelli e del banchiere Roberto Calvi. E mille altri fattacci occulti.

I misteri ancora irrisolti


Ma la sequenza di morte comprende misteri tutt’ora intatti o non chiarii del tutto: come l’uccisione di Christa Wanninger negli anni della Dolce Vita di via Veneto, che ha acceso tumultuosi processi contro il presunto assassino, tale Guido Pierri, uno stralunato pittore, condannato e poi scagionato, così come l’epopea del Clan Marsigliesi di Albert Bergamelli e la incredibile ondata di sequestri di persona che flagellarono la Capitale tenendola in scacco a fine Anni Settanta. Con tante vittime tra le quali il duca Massimiliano Grazioli: lo avevano già ucciso ma chiesero ugualmente il riscatto.
Le gesta della banda della Magliana restano di bruciante attualità. Il sequestro e la sparizione di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori hanno imposto in queste settimane di riaprire il caso per ordine dello stesso Papa Francesco. 


Magistrati del Vaticano con l’aiuto della procura della Repubblica di Roma sono ora impegnati a rileggere l’intera vicenda che risale a quaranta anni fa: perché troppi sono i buchi da colmare, i misteri da disvelare e le responsabilità da individuare e colpire. Buchi neri che scottano. Il “porto delle nebbie” come venne definita la Procura di piazzale Clodio da Roberto Martinelli, raffinatissimo analista del processo, il “principe dei cronisti giudiziari”. Nelle stanze di quei palazzi non sempre è valso il principio che vuole la legge uguale per tutti. Restano aperte ancora adesso vicende avvolte da ombre inquietanti, misteri e segreti, riconducibili al crimine organizzato, alla comparsa e al dilagare della droga, ed anche agli intrecci con la politica e perfino con frange deviate dei servizi segreti. 

Il massacro del Circeo 


E a proposito di fughe protette da complici rimasti senza volto, negli annali della “nera” della Capitale, risplende di luce propria, una luce sinistra e orribile, il massacro del Circeo, con la sua vittima Rosaria Lopez e la sua amica Donatella Colasanti, sopravvissuta a quelle ore terrificanti. Prigioniere di tre pariolini assetati di violenza, Gianni Guido, ora libero dopo varie latitanze, Andrea Ghira, mai catturato, latitante da sempre, forse morto in Spagna come indicherebbe l’esame del Dna, e Angelo Izzo, falso pentito mai pentito, ora a un nuovo ergastolo per l’uccisione di una madre e della figlia: questo il trio di assassini condannati al massimo della pena, ben poco patita. 
Quel processo è passato alla storia perché all’inaudita ferocia dei tre giovinastri legati ad ambienti neofascisti ha portato sul banco degli imputati e severamente punito soprattutto e per la prima volta la cultura della sopraffazione verso le donne. 
In quella temperie il delitto di stupro è stato riconosciuto per legge come reato contro la persona. Non solo contro la morale. Pagine di autentica giustizia applicata. 


Il delitto Moro, 9 maggio 1978, la squassante sequenza di omicidi firmati dalle Brigate Rosse è un capitolo a sé perché s’intreccia con gli Anni di piombo, la notte della Repubblica, il tentativo sanguinario e reiterato di trascinare il Paese nel caos e di ferire a morte la democrazia. 
Un tentativo che si rintraccia imponente, con motivazioni e azioni diverse, sul fronte opposto, del terrorismo nero, con le stragi, i successivi depistaggi, le complicità occulte fin su a certi piani alti delle istituzioni, proprio là dove si doveva vigilare sullo stato di diritto e sulla legalità repubblicana. 
Ci sono pagine su quel fronte ancora da scrivere e fonti che andrebbero nuovamente scosse, così come sul terrorismo brigatista, la Commissione Parlamentare d’inchiesta bis, ha ammesso con grave disappunto che le ombre da diradare su quella lunga stagione di violenza e di sangue sono ancora tante, così come i responsabili abilmente scomparsi dai radar delle investigazioni e della giustizia. 

La squadra dedicata ai Cold Case 


In questa carrellata, giocoforza, mancano numerosi capitoli che riguardano altrettanti delitti. Consola almeno in qualche modo l’idea che esiste e funziona una struttura di indagini fondata nel 2007 sui Cold Case, i casi freddi che per diverse ragioni non sono approdati ad alcuna verità giudiziaria. 
Una squadra di tecnici voluta dal prefetto Vittorio Rizzi che ha messo a segno, dopo anni di sforzi e verifiche, alcuni importanti successi riuscendo a identificare assassini che già pensavano di averla fatta franca. 
Come quel filippino che dopo vent’anni di indagini ha ammesso l’uccisione della contessa Alberica Filo della Torre, soffocata in casa per rapinarla dei gioielli. Ecco, su quel delitto, i cronisti di “nera” hanno speso fiumi d’inchiostro incalzando senza sosta i nuclei della ricerca poliziesca ad investigare tra una folla di indiziati coinvolti e scagionati fino a trovare il vero colpevole: il filippino domestico in casa Mattei, Manuel Wiston Reyes. Quell’uomo, coperto da benefici di legge, è libero dopo dieci anni di detenzione.
Il lavoro del cronista, infatti, non consiste solo nel raccogliere notizie, ordinarle e proporle all’attenzione del lettore: egli concorre con il suo impegno a sorreggere i pilastri della Giustizia dai tanti attacchi interessati a renderla malleabile o disponibile alla trattativa. 


Il cronista di “nera” è, dunque, testimone attivo, permanente, della parte più brutta e spesso indecifrabile della società. I suoi nemici sono la sopraffazione di chi vuole imporre un’impunità ai propri crimini. Oggi Roma assiste ad una nuova e diversa stagione del crimine organizzato: e sempre, in questi casi si scatena la lotta per bande e il piombo delle armi torna a dettare la sua legge di morte. Fabrizio Piscitelli, il “Diabolik” gli ultrà laziali si è accasciato per sempre su una panchina del parco degli Acquedotti, agosto 2019. L’assassino, l’argentino Raul Esteban Calderon era il killer ma i mandanti, col processo ancora in corso, non hanno un nome e il movente resta nel limbo delle ipotesi. Ma è la cocaina che attraversa i fatti di sangue come l’uccisione, nel marzo 2016, di Luca Varani ucciso da Marco Prato e Manuel Foffo, in una terrificante sequenza di perversioni che ci conducono al di là di una deriva proletaria per introdurci in una condizione piccolo borghese, agiata e agile.


Le infiltrazioni mafiose, come dimostrano la vicenda di Mafia Capitale, i protagonisti pescati nel mondo dell’estrema destra eversiva come Massimo Carminati, le ricche cosche della droga e dello strozzinaggio, fin qui hanno dimostrato che il mestiere di cronista da marciapiede, impegnato in inchieste sul campo, non è affatto esente da rischi per chi lo pratica con dedizione e senso dell’etica. 
È questa la prova del suo valore e della sua indispensabilità. Il crimine, quello da persona a persona e quello organizzato, va combattuto con l’arma infallibile della verità. Anche se il suo costo può rivelarsi salatissimo. E tuttavia inevitabile.
 

Ultimo aggiornamento: 19 Giugno, 07:06 © RIPRODUZIONE RISERVATA