Una laguna dalla pelle nera: così Venezia si scopre africana oggi come nell'antichità

Un viaggio nella storia e nell'arte nel libro "Venezia africana. Arte cultura persone" di Paul Kaplan e Shaul Bassi

Sabato 17 Febbraio 2024 di Alessandro Marzo Magno
Moulaye Niang, senegalese che lavora il vetro di Murano e per questo soprannominato Muranero

VENEZIA - Cerco un po' d'Africa in campiello e all'improvviso eccola qua: basta guardarsi attorno e la Venezia africana emerge da pietre, quadri, letteratura.

D'altra parte l'evangelista Marco era di Alessandria d'Egitto, un santo africano, insomma. Tutto questo, e molto altro, è spiegato in un delizioso volume pubblicato da Wetlands (una casa editrice che infila un titolo interessante dietro l'altro), in libreria in questi giorni: "Venezia africana. Arte cultura persone" di Paul Kaplan e Shaul Bassi, con prefazione di Igiaba Scego e postfazione di Maaza Mengiste. Kaplan, storico dell'arte statunitense, parla dell'Africa a Venezia nel passato; Shaul Bassi, docente di letteratura inglese a Ca' Foscari, della Venezia africana di oggi; Scego è una scrittrice romana di origine somala, mentre Mangiste è una scrittrice etiope che vive a New York.


«Questo libro», sta scritto, «è un omaggio alle persona africane e afrodiscendenti per le quali, in epoche diverse, Venezia è stata una casa: da Olga Manente, la studentessa prima afrodiscendente dell'università Ca' Foscari, che cercò sempre di nascondere il suo essere nera ai contemporanei il cui razzismo non era certo scomparso con la caduta del fascismo; all'artista senegalese Moulaye Niang, il cui approccio innovativo alle tecniche tradizionali della lavorazione del vetro gli è valso il soprannome di "Muranero"». Oltre agli interventi degli autori citati, ed altri brani scritti specificatamente per quest'opera, nel libro si ritrovano dieci itinerari, cinque per sestiere (San Polo e Santa Croce sono accorpati), e poi piazza San Marco, le gallerie dell'Accademia, la Biennale, la laguna e infine la terraferma (Padova, Vicenza e Verona). Non manca un coffee break, con Sandra Stocchetto che racconta le rotte africane del caffè, originario dell'Etiopia ed entrato in Europa attraverso Venezia sul finire del Cinquecento, e la keniota Yvonne Adhiambo Owuor che scrive: «C'è un caffè vecchio qui a Venezia che ha tentacoli profondi nelle azioni e nei pensieri trans-temporali che hanno dato al mondo contemporaneo l'idea del caffè generalmente condivisa».

LE TESTIMONIANZE
I segni dell'Africa sono evidentissimi nell'arte (il libro riporta numerose illustrazioni), una delle testine che soffiano i venti nella veduta di Venezia di Jacopo de' Barbari ha i capelli crespi tipici degli africani, molti conoscono il gondoliere nero rappresentato da Vittore Carpaccio, ma un barcaiolo africano c'è pure nel mosaico nella basilica di San Marco che mostra il trafugamento del corpo dell'evangelista da Alessandria. Gentile Bellini dipinge un africano che si tuffa (o viene spinto da una donna a farlo) per recuperare la reliquia della croce caduta in acqua. Paolo Veronese nelle "Nozze di Cana" (oggi al Louvre) rappresenta oltre un centinaio di figure, sei delle quali sono africani: cinque camerieri, ma anche un personaggio elegantissimo in veste e turbante verde che, seduto al tavolo, sussurra qualcosa al cameriere.

LO STATUS
In effetti dalle rappresentazioni emergono i vari stati nei quali potevano trovarsi gli africani a Venezia: schiavi (le statue in marmo nero che sorreggono la tomba del doge Giovanni Pesaro nella basilica dei Frari), servitori (il gondoliere di Carpaccio) e uomini liberi (su tutti il catecumeno Lazzaro Zen, Alì di Saba prima del battesimo, raffigurato da Francesco Guardi). Venezia ha avuto un comandante nero delle truppe di terra, Johannes Ethiops (Giovanni l'Etiope), morto in battaglia contro il re di Francia, la vedova e i figli nel 1495 vengono compensati dal Senato con un vitalizio e un alloggio a Verona. E pure un comandante militare è il più celebre e significativo degli africani di Venezia, cioè Otello, personaggio creato dalla fantasia di William Shakespeare, «il nero veneziano più conosciuto nella cultura occidentale».

I "MORETTI"
Per fare un salto nel contemporaneo, le testimonianze artistiche di oggi si ritrovano nella galleria Akka, in corte di Ca' del Duca, a San Marco, dove i coniugi Lidija Kostic e Kristian Khachatourian, lei serba, lui armeno, dal 2019 invitano regolarmente artisti in residenza che si confrontano con Venezia senza seguire necessariamente itinerari africani. La presenza africana è testimoniata anche dalla gioielleria, con i "moretti" cioè eleganti spille che riproducono le fattezze di un volto africano, e dall'artigianato, con i "servidori" di legno, oggetti d'arredo che spesso svolgono la funzione di portalampade. «In nessun altro posto del mondo sarebbe possibile produrre e vendere oggetti del genere», precisa Shaul Bassi, mentre Paul Kaplan scrivendone si lascia sfuggire un «purtroppo». Se si ritrovano effigiati moltissimi africani, le africane sono invece sporadiche, quasi eccezioni che confermano la regola di un mondo raffigurato al maschile. Eppure è un controsenso perché nella Venezia del passato dovevano essere molto più numerose le donne degli uomini con la pelle nera. Gli schiavi che giungevano in città (la schiavitù è stata formalmente abolita soltanto con l'entrata in vigore nel Lombardo-Veneto del nuovo codice civile austriaco il 1° gennaio 1816) erano prevalentemente domestici, e tra il personale domestico erano di gran lunga più presenti le donne.

IL CONTEMPORANEO
Nel contemporaneo abbiamo anche testimonianze tragiche. Porto Marghera è stato voluto da Giuseppe Volpi, a partire del 1919, e qualche anno prima proprio Volpi erano stato un acceso sostenitore dell'impresa coloniale di Libia. L'unica azienda italiana che producesse prefabbricati era la Eraclit Venier di Marghera e proprio i pannelli di questa fabbrica, peraltro apprezzati per la loro resistenza alle termiti, sono stati utilizzati per la "modernizzazione" dell'Etiopia e della Somalia, cioè per la costruzione di nuovi quartieri di casette prefabbricate. Ben altre conseguenze aveva invece una diversa lavorazione effettuata a Marghera: l'iprite, o gas mostarda, che nonostante fosse stata messa al bando nel 1925, veniva prodotta nelle fabbriche chimiche e per essere utilizzata dalle forze armate italiane negli anni Trenta prima in Libia e poi in Etiopia. Chiudiamo con uno sguardo al presente e a Ibrahima Lo, un senegalese arrivato su un barcone che oggi vive a Venezia. Ha pubblicato un libro "Pane e acqua" nel quale racconta il suo viaggio dal Senegal all'Italia attraverso il deserto. «La mia impressione», dice, «è che Venezia resti una città fondamentalmente accogliente. Quando cammino per le calli e incrocio gente che viene da ogni parte del mondo, mi riesce più facile sentirmi una parte del tutto. Venezia è una città che richiede coraggio, ma sa restituire».
 

Ultimo aggiornamento: 12:31 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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