Ivano Bordon, dai campetti d'erba sotto le ciminiere di Porto Marghera all'Inter. «Il mio record: 2 volte campione del mondo»

Lunedì 22 Aprile 2024 di Edoardo Pittalis
Ivano Bordon

L'Inter questa sera nel derby può cucirsi alla maglia con anticipo la seconda stella, 20 scudetti. Si lascia alle spalle il Milan fermo a quota 19. «Pare davvero fatta, ha dimostrato di essere più forte fin dall'inizio, nessuno può dire che non sia un titolo meritato», Ivano Bordon non ha dubbi. Lui in maglia nerazzurra di scudetti ne ha vinti due, è nella Hall of Fame dell'Inter, e in azzurro è stato campione del mondo in Spagna nel 1982, vice di Zoff. E un altro mondiale l'ha conquistato nel 2006 come allenatore dei portieri. «Sono l'unico italiano dell'epoca moderna che ha vinto due mondiali!». Bel medagliere per il figlio di un operaio della Sirma di Porto Marghera nato in quell'Italia che si affacciava agli Anni Cinquanta. Un bambino con tanta voglia di giocare che ogni sera d'estate si metteva dietro la porta nei tornei canicolari per studiare come diventare un grande portiere. Il calcio era la passione di famiglia, il padre Danilo aveva giocato come riserva nel Venezia di fine guerra e per anni nella Miranese. Un difensore come si usava al tempo, terzino o stopper di quelli solidi che raramente lasciavano la propria area. Con un po' di fortuna sarebbe finito al Milan che lo aveva cercato; è finito alla Sirma, a fare pietre refrattarie fino a quando la silicosi gli ha mangiato i polmoni. Ivano Bordon, 73 anni, sposato con Elena, ha incominciato da queste parti tra campetti senza erba sotto le ciminiere e una casa che confinava con quella che era allora la fine dell'autostrada per Venezia.

Come era la Marghera della sua infanzia?
«Una cittadina importante con le industrie che si vedevano dalle finestre, in quelle fabbriche ci lavoravano mio padre e i genitori dei miei compagni di scuola.

Il casello dell'autostrada era proprio davanti a casa mia. Il pallone era inevitabile, papà Danilo aveva giocato nelle riserve del Venezia e per anni a Mirano dove ha conosciuto mia madre Gemma. Il nonno mi portava ai tornei estivi tra quartieri e bar. Avevo sei anni, mi mettevo sempre dietro la porta e lì è incominciato l'amore per quel ruolo che poi è diventato la mia vita. Quando avevo 13 anni e fisicamente già cresciuto, con mio padre sono andato alla Mestrina dove allenava Elio Borsetto che era stato suo compagno di squadra. L'anno dopo Borsetto andò alla Miranese in serie D: "Per andare a Mirano devo passare davanti a casa tua, se vuoi tre volte alla settimana vieni con me". Ero tra gli Allievi ma mi faceva allenare con la prima squadra; il portiere era Armando Buffon, sarebbe arrivato fino alla serie A col Brescia».


La carriera di Bordon è incominciata così?
«Dopo i 14 anni ho potuto giocare le finali allievi, i dirigenti erano soddisfatti, mio padre chiese un contratto che mi lasciasse libero in caso di offerte importanti. Conosceva l'ambiente, in pratica è stato il mio primo procuratore. Non se ne fece niente e mio padre, che mi vedeva triste, acconsentì alla richiesta dell'allenatore della Juventina di Marghera, squadra juniores, che cercava un portiere. L'Inter aveva osservatori in zona, a notarmi fu il signor Alberti di Padova che mi segnalò a Gianni Invernizzi che seguiva i giovani e io ero anche già stato convocato nella selezione Allievi del Veneto. Nel gennaio 1966 sono andato ad Appiano Gentile per il provino e c'erano Helenio Herrera e Italo Allodi che alla fine si avvicinò a mio padre: "Il ragazzo ci va bene". Da lì è cominciata la mia avventura, col primo campionato Allievi 1966-1967».


Fino all'esordio in serie A...
«Tre anni dopo dissi ai miei genitori di raggiungermi. Abitavo a Trezzano sul Naviglio, volevo che arrivassero anche per togliere dalle polveri papà che per la silicosi doveva andare in pensione. Due anni di Allievi, uno di Primavera nel 1969 vincendo il campionato italiano con accanto Damiani e Bellugi. Nel 1970 sono passato in prima squadra come terzo portiere, dietro Lido Vieri e Sergio Girardi e l'anno dopo ho esordito in serie A e ho vinto anche lo scudetto. La mia prima partita è stata in un derby col Milan, sono entrato nel secondo tempo, dopo un'ora, perdevamo 1-0, mi fecero un secondo gol su rigore e il terzo me lo segnò Rivera. La squadra non andava d'accordo con Heriberto Herrera che venne esonerato dopo quella sconfitta e sostituito da Gianni Invernizzi. La mia vita da professionista è nata in quella partita; certo devi avere le qualità e anche un po' di fortuna per prendere il treno giusto al momento giusto. Sono entrato in prima squadra nei "resti" della Grande Inter: Vieri, Burgnich, Facchetti, Bedin, Jair, Guarnieri, Mazzola, Suarez, Corso... Tutti grandi giocatori e grandi uomini a incominciare da Facchetti col quale in ritiro dividevo la stanza. E Lido Vieri che per me è stato il maestro: come professionista era perfetto, come insegnante un grande e poi un vero amico. Mazzola mi aveva battezzato il "Pallottola" per la velocità e l'agilità negli spostamenti. Sono contento di aver ritrovato il numero di cellulare di Lido, vive in Calabria, vuole che in estate vada a trovarlo. Sarà un bellissimo incontro».


E il secondo scudetto nel 1979-80?
«Una squadra tutta italiana allenata da Eugenio Bersellini, dalla prima all'ultima partita sempre in testa. Siamo rimasti un gruppo ancora unito, ci ritroviamo quasi ogni mese a cena: Canuti, Baresi, Bini, Oriali, Beccalossi, Altobelli, Pasinato... Tanti venivano dalle giovanili. Ho sempre avuto compagni di squadra veneti, la prima volta c'era Gianfranco Bedin di San Donà di Piave, rientrava spesso a casa e passava a prendermi, mi lasciava a Marghera e ripassava. Compagni bravissimi, come Muraro, come Pasinato del secondo scudetto. E come Casagrande e Bellotto alla Sampdoria».


La delusione del trasferimento alla Sampdoria?
«Non mi era piaciuto lasciare così l'Inter dopo quasi 400 partite, ma ero costretto a farlo. Era il 1983, sono andato per tre anni in una società che con un grandissimo presidente stava creando la squadra dello scudetto. Giocatori esperti assieme a giovani molto validi, abbiamo vinto la prima Coppa Italia della Samp ed è stato una specie di scudetto».


E la Nazionale?
«Sono entrato nel 1978 e ci sono rimasto fino al 1986. Ho vinto in azzurro il Mondiale di Spagna del 1982, facevo già parte del gruppo in Argentina 1978. Una cosa grandissima vincere il mondiale, entri nella storia del calcio; è come un sogno a occhi aperti che non finisce mai e lo puoi rivedere quando vuoi. Ho vinto anche il mondiale del 2006 come allenatore dei portieri. E nel 1973 sono stato campione del mondo in Congo con la Nazionale Militare, una squadra straordinaria della quale facevano parte Oriali, Graziani, Furino, Zecchini, Speggiorin».


Le più belle partite in maglia azzurra e in giro per il mondo?
«Quella contro la Cecoslovacchia per le qualificazioni dopo il titolo dell'82. In tutto 22 presenze, non sono poche se devi stare dietro uno come Zoff! Ricordo le partite in Coppa dei Campioni contro il Borussia Monchengladbach, a incominciare da quella della lattina lanciata sulla testa di Boninsegna: sono entrato nel secondo tempo, stavamo perdendo 5-1, ho preso altri due gol. La gara di Monaco fu annullata, a Berlino abbiamo pareggiato zero a zero, ho fatto una grande partita, ho parato un rigore. Poi a Milano abbiamo vinto 4-2».


La sua classifica ideale dei portieri?
«Parlo di quelli che ho visto, di quelli della mia generazione: l'inglese Gordon Banks, il tedesco Sepp Maier, l'uruguaiano Ladislao Mazurkiewicz e naturalmente Jascin che però ho avuto modo di vedere poco. In Italia: Zoff, Vieri e Albertosi sono quelli che mi piacevano di più. Da bambino vidi in tv una partita tra Real Madrid e Juventus, rimasi colpito da Roberto Anzolin che difendeva la porta bianconera, mi è rimasto in mente il suo modo di parare. Quando l'ho conosciuto gli ho raccontato dei miei sogni di bambino».

Ultimo aggiornamento: 23 Aprile, 08:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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