Padova. Il medico di origini ebraiche Abrahamsohn si racconta: «Quei due anni nascosto a Este per evitare i lager»

Martedì 23 Gennaio 2024 di Giovanni Brunoro
Claudio Abrahamsohn

PADOVA - Il padovano Claudio Abrahamsohn, 85 anni, è laureato in medicina e ha esercitato per decenni la professione di medico internista in varie strutture sanitarie del Padovano. Per sfuggire alle persecuzioni nazifasciste dal 1943 al 1945 la sua famiglia è rimasta nascosta clandestinamente in un’abitazione di Este. Claudio, il fratello Roberto, il padre Marcello e la mamma Giovanna si sono salvati grazie al supporto della prozia e di alcuni conoscenti. Domenica alle 11.30 si terrà in sala consiliare di Este una cerimonia in ricordo dei Giusti che hanno aiutato la famiglia Abrahamsohn. 

Dottore, qual è la storia della sua famiglia? 
«Io sono padovano, ma le mie origini sono ebraiche.

Mio padre, Marcello Abrahamsohn, era ungherese e si era trasferito in Italia nel 1930 perché in Ungheria c’erano già delle leggi razziali ed entrare lì all’Università sarebbe stato impossibile. Veniva da un contesto di ebrei osservanti, perché mio nonno Arminio era uno dei rabbini capi d’Ungheria. Nel 1912 andò negli Stati Uniti per partecipare ad un convegno di sionisti: portava avanti l’ideale di uno stato ebraico nell’allora Palestina». 

E sua madre? 
«Si chiamava Giovanna Bergo e, originariamente, era cattolica. Aveva sposato mio padre secondo le leggi del tempo, perché all’epoca i matrimoni misti erano consentiti. Nel ‘34 è nato mio fratello Roberto, scomparso nel 2022, e nel ’38 sono nato io. Dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, la situazione per gli ebrei si faceva sempre più drammatica. Nostra madre credeva che farci diventare cattolici ci avrebbe facilitato il rilascio un lasciapassare, ma era una pura illusione. Così, io e mio fratello siamo stati battezzati nella chiesa di San Francesco. Dopo la guerra, la mamma prese a frequentare la sinagoga di Padova e si convertì all’ebraismo. Ora entrambi i miei genitori riposano al cimitero ebraico». 

Cosa accadde dopo il vostro battesimo? 
«Sapevamo che i tedeschi stavano cercando gli ebrei e abbiamo deciso di scappare e renderci irreperibili. Così ci siamo divisi. Mio nonno mi portò a Venezia, da amici cattolici di mio padre. Stavo con questi due fratelli, uno dei quali era un medico che divenne poi primario a Reggio Emilia. Mia mamma, intanto, si era già spostata a Este con mio padre, ma iniziava ad avere molta nostalgia di noi. Così anche io e mio fratello l’abbiamo raggiunta». 

Cosa sa della clandestinità a Este? 
«Il nostro rifugio era una villetta bifamiliare in centro, via San Girolamo 24, dove abitava una zia di nostra madre. Si chiamava Elvira Carbonin, coniugata Rossetto, e aveva fatto per trent’anni la maestra elementare a Villa Estense». 

Suo padre intanto stava nascosto...
«All’epoca il riscaldamento era a legna e quella casa aveva una cantina adibita a legnaia. Lì papà si era fatto una sorta di celletta e stava sempre lì. Ci è rimasto praticamente due anni, sia da solo che nel periodo in cui la famiglia si è riunita. Ovviamente, quello più a rischio di arresto e deportazione era lui, ebreo a tutti gli effetti. Ma anche noi, suoi figli, eravamo in pericolo. A Este davano la caccia agli israeliti». 

E infatti, il 4 dicembre 1943, a poche centinaia di metri da via San Girolamo, furono arrestate le commercianti Emma Ascoli Zevi e la figlia Anna. Entrambe morirono a Birkenau. In tutto questo tumulto, che vita conducevate voi bambini? 
«Tutto sommato una vita normale. Utilizzavamo il cognome di mia madre, Bergo, che destava meno sospetto di Abrahamsohn. Uscivamo di casa anche per fare la spesa con il nonno materno. Era un sottufficiale del Regio esercito, con alle spalle una missione in Etiopia. Della Este di allora ricordo un po’ la piazza Maggiore e il centro. Per mangiare c’era la tessera annonaria e nei negozi ci davano quanto prescritto, secondo il numero delle persone in famiglia». 

Avevate dei documenti falsi? 
«Questo non lo ricordo, ma non frequentavamo la scuola. Quindi ne dubito». 

Una situazione triste per dei bambini in età da elementari… 
«Fortunatamente la zia era una maestra e si è presa cura di noi, insegnandoci tutte le materie. Alla fine della guerra, ho fatto gli esami di terza da privatista e li ho superati brillantemente». 

Oltre alla prozia, qualcun altro vi ha aiutato? 
«Le tre sorelle Gayo, conoscenti della zia Elvira. Abitavano in un piccolo condominio a Este e insegnavano al Manfredini. Non avevano figli e non c’erano per noi compagni di giochi, ma le sorelle erano presenti per qualsiasi nostra necessità. Ci parlavano con affetto e amicizia e per noi è stato fondamentale avere un sostegno così prezioso».

Chi è oggi Claudio Abrahamsohn? 
«Un cattolico osservante, che mantiene fortissimi i suoi legami con l’ebraismo. Nostro padre ci chiese se volevamo cambiare cognome, ma ci siamo rifiutati per conservare la nostra identità storica e rispettarla. Metà della nostra famiglia in Ungheria è morta nei campi di sterminio e noi che abbiamo avuto la fortuna di sopravvivere dobbiamo tenere vive le nostre radici. Così fanno anche i miei figli».

Ultimo aggiornamento: 16:46 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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