Due strutture di «ingresso e accoglienza temporanea».
IL PATTO
Il protocollo, che entrerà a regime «entro la primavera del 2024», sei mesi al massimo, ha avuto una lunga gestazione. Iniziata in piena estate, quando la premier, era il 14 agosto, lasciando il buen retiro in Puglia ha fatto un blitz a Tirana dove è rimasta per tre giorni, lei "sorella di Albania", come la chiama Rama. Poi la missione albanese del ministro dell'Interno Matteo Piantedosi a metà settembre, per perfezionare l'accordo. Sul quale, in ogni caso, la trattativa è stata gestita con il massimo riserbo tra i due premier. Del resto per Meloni l'intesa ricalca il "modello Sunak", il patto siglato dal primo ministro britannico con il Ruanda per "delocalizzare" nei Paesi di transito il controllo delle richieste di asilo.
Ma cosa prevede il protocollo italo-albanese? Il punto centrale dell'intesa, alla quale dovranno seguire ulteriori «provvedimenti normativi», (e le relative coperture finanziarie, spiegano da Chigi), è la costruzione a spese italiane di due nuove strutture in territorio albanese. Due centri di ingresso e accoglienza temporanea in grado di ospitare simultaneamente fino tremila persone, e fino a 39mila in un anno. Entrambi, viene chiarito, saranno sotto giurisdizione italiana, seppur gestiti con la collaborazione delle forze di polizia di Tirana. La prima struttura sorgerà nel porto di Shengjin. È qui, sulla costa settentrionale dell'Albania nella provincia di Alessio, che verranno fatti sbarcare i migranti salvati in mare dalle imbarcazioni italiane della Marina e della Guardia di finanza (dunque, a quanto si apprende, non quelli trasportati dalle navi delle Ong). L'accordo, insomma, non si applica a chi arriva autonomamente sul territorio italiano. E neanche viene sottolineato a «minori, donne in gravidanza e soggetti vulnerabili».
Quello di San Giovanni Medua sarà a tutti gli effetti un centro di prima accoglienza e screening: qui l'Italia gestirà le procedure di sbarco e identificazione dei migranti e si farà carico delle eventuali richieste d'asilo. La seconda struttura, invece, nascerà nell'area interna di Gjader, dove verrà realizzato un centro «modello Cpr» per le procedure successive. A cominciare dal rimpatrio di chi non ha diritto alla protezione internazionale. Restano però punti da chiarire. Ad esempio: come garantire la gestione italiana delle procedure amministrative, come le domande d'asilo, in centri situati al di fuori del territorio dello Stato (e dell'Ue)? E poi: quanti (e quali) fondi saranno necessari, per costruire e gestire le due nuove strutture?