ROVIGO - Non solo saracinesche abbassate, ma anche competenze, tradizioni, opportunità e servizi che si stanno perdendo. Alcuni, forse, per sempre. Fra 2021 e 2022 in Polesine ha chiuso i battenti più di un’attività artigiana al giorno, 396 in tutto, una fetta di oltre il 5% del totale. Le attività artigiane in provincia sono passate da 7.646 a 7.250.
LO STUDIO
A rilanciare l’allarme su un problema ormai cronicizzato, che ha anche impatti urbanistici e sociali non di poco conto, se si considera la desertificazione dei centri urbani, che significa meno sicurezza ma soprattutto perdita dei luoghi di aggregazione e di interazione, sottraendo alla fascia di popolazione più anziana la possibilità degli acquisti in autonomia, girando a piedi fra i negozi di vicinato, è la Cgia di Mestre, che sulla base dei dati elaborati dal proprio Ufficio studi, sottolinea come «non solo i giovani sono sempre meno interessati a lavorare in questo settore, ma anche chi ha esercitato la professione per tanti anni, spesso preferisce chiudere la partita Iva e restare nel mercato del lavoro come dipendente che, rispetto a un artigiano, ha sicuramente meno preoccupazioni e più sicurezze».
A livello provinciale le variazioni percentuali più negative, comunque migliori rispetto al record rodigino, sono quelle di Belluno con il 20,2% e Verona con il 23,2%. Tra le sette province venete, solo Treviso con il meno 16% e Venezia con il meno 16,5% hanno registrato delle contrazioni più contenute della media nazionale. In termini assoluti le perdite più significative hanno riguardato Vicenza con 6.756 imprenditori artigiani in meno, Padova con 7.438 e, soprattutto Verona con 8.821. A Treviso il calo è stato di 5.605 unità, a Venezia di 4.744 e a Belluno, che ha una dimensione analoga a quella polesana, 1.560.
GLI EFFETTI
«Girando per le città e i paesi delle nostre province - nota la Cgia - sono ormai in via di estinzione tante attività artigianali: non solo diminuisce il numero degli artigiani, ma anche il paesaggio urbano sta cambiando volto. Sono ormai ridotte al lumicino le botteghe artigiane che ospitano calzolai, corniciai, fabbri, falegnami, fotografi, lavasecco, orologiai, pellettieri, riparatori di elettrodomestici e tv, sarti, tappezzieri. Attività che, nella stragrande maggioranza dei casi a conduzione familiare, hanno contraddistinto la storia di molti quartieri, piazze e vie, diventando punti di riferimento che davano identità ai luoghi. Per contro, invece, i settori artigiani che stanno vivendo una fase di espansione sono quelli del benessere e dell’informatica».
In crescita ci sono, per esempio, acconciatori, estetisti e tatuatori, ma anche sistemisti, addetti al web marketing, video maker e social media manager. Ma gli aumenti sono nettamente inferiori all’enorme numero delle chiusure.
CAUSE E SOLUZIONI
Il perché di questo crollo ha più risposte: il forte aumento dell’età media, provocato soprattutto da un mancato ricambio generazionale, la feroce concorrenza esercitata dalla grande distribuzione e ultimamente dal commercio online, il boom del costo degli affitti e ora anche i rincari di materie prime e bollette, hanno spinto molti artigiani a gettare la spugna. Anche perché all’aumentare delle spese, sono diminuiti gli incassi, soprattutto per una rivoluzione che ha riguardato non solo la forma dell’acquisto, con internet sempre più dominante, ma anche la tipologia degli acquisti, con prodotti usa e getta a basso costo che hanno soppiantato la cultura della riparazione e i prodotti fatti a mano. Più cari, certo, ma anche più belli e soprattutto, più duraturi. Per questo la Cgia afferma perentoria: «Dobbiamo rivalutare culturalmente il lavoro manuale».