Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Challengers va a segno: set, partita, cinema
Una confidenza di troppo: Luchetti incerto

Venerdì 26 Aprile 2024

Più che a Bertolucci, che per Guadagnino è un punto di riferimento irrinunciabile, e qui puntualmente echeggiato in diversi momenti, ad esempio da “Novecento” a “The dreamers”, si potrebbe pensare a Hitchcock, non tanto per quelle sequenze in cui le teste degli spettatori girano in continuazione seguendo il movimento della pallina (“L’altro uomo”), ma per quel suo istinto di girare gli omicidi come scene d’amore e viceversa, come ebbe a dire un giorno Truffaut. Tutto in “Challengers” è gesto erotico (e soprattutto omoerotico) e non solo perché perfino la racchetta entra in un dialogo come oggetto di piacere: il gioco, la sfida, la sensualità dell’azione, l’attrazione e il respingimento, la rabbia e la violenza sul campo, costruiscono la mappatura di una schermaglia sessuale, che come diceva la scrittrice americana Joyce Carol Oates nel suo “Sulla boxe” è imitazione di amore fisico sul ring, perché è vero che nel tennis il contatto è ostacolato dalla rete che separa gli avversari, ma così ne alimenta ancora di più il desiderio e la paura, come d’altronde il finale esasperato esprime in maniera inequivocabile. E d’altronde sulla simbologia erotica ricorrente nel mondo dello sport, basti ricordare come il gol, nel calcio, è visto spesso come rappresentazione dell’orgasmo. In uno scenario dominato da geometrie elencate in modo pari, l’intromissione dispari umana altera sensibilmente i rapporti con il mondo, dentro e fuori dal campo. Ad Art e Patrick, amici dall’infanzia e promesse del tennis, si aggiunge Tashi, altrettanto talentuosa, scomponendo quel legame che stenta a nascondere altro, e di fatto polarizzando sentimenti e speranze sportive, nelle quali affonderanno, per infortuni sul campo o nella vita, un po’ tutti, ribaltandone, negli anni, costantemente i poli di attrazione, ben rimarcati anche dalla fisiognomica dei protagonisti, ai quali Zendaya, Josh O’Connor e Mike Faist danno un contributo insostituibile. “Challengers”, che avrebbe dovuto aprire a settembre la Mostra di Venezia, ma che fu stoppato dallo sciopero hollywoodiano, è una fenomenale connessione tra eros e agonismo. Guadagnino la governa con il suo consueto, fin troppo, pudore, pur esplicitando tensioni e impulsi tra i corpi, e soprattutto con la sua risaputa fame cinefila, laddove affiora anche un istinto all’autocompiacimento, nonostante la ricchezza registica si faccia apprezzare nell’abbondanza di soggettive inusuali, inquadrature quasi astratte, slittamenti metaforici (la tempesta di vento) e temporali (gli anni procedono a intarsio). E nel martellamento musicale di Reznor e Ross, esaltazione assoluta della funzione iperdinamica degli avvenimenti, che nell’interminabile, parossistico finale divora scambi di palline lanciate come proiettili, una rottura di ogni percezione visiva, nell’esplosione orgiastica di dettagli, che ansiosamente ritardano l’ultimo punto, quell’unica soluzione possibile, forse non così azzardata. Scritto ancora da Justin Kuritzekes (dopo “Bones and all” e prima del prossimo “Queer”), in definitiva “Challengers” è un’opera pop assai seducente, in bilico tra l’eterna sfioritura della giovinezza e il match point che il campo e la vita fanno spesso sbagliare. Perché, anche se non sembrerebbe, il tennis è solo cornice. Voto: 8.

MAI SVELARSI DEL TUTTO - Chi non ha segreti da custodire accuratamente, ben sapendo che il loro svelamento potrebbe nuocere alla propria immagine? In realtà quello che sembrerebbe essere il fattore più importante in “Confidenza” si rivela un pretesto. Luchetti trasporta sullo schermo per la terza volta Starnone, raccontando un professore che parla brillantemente ai suoi studenti di amore e paura, ma che davanti alle donne (qui ce n’è più di una) fa affiorare il suo narcisismo meschino, ossessionato dal voler essere quello che forse non è e divorato dal senso di colpa. Un thriller psicologico che Luchetti declina a tratti con tocchi surreali poco efficaci (specie nel finale) e un’ansia che resta imbrigliata in un didascalismo borghese, nonostante l’ennesima convincente prova di Elio Germano. Voto: 5.

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