Atac, assenteista condannato a restituire 14 anni di stipendi

Giovedì 3 Gennaio 2019 di Michela Allegri
Atac, assenteista condannato a restituire 14 anni di stipendi
Licenziato, reintegrato, pensionato. E, ora, in debito con la municipalizzata capitolina dei trasporti di quasi 300mila euro. Perché la Corte d’appello, al termine di un giudizio durato 18 anni, ha stabilito che il licenziamento del dipendente Atac, avvenuto nel 2000, fosse legittimo. Risultato: Claudio R., in pensione dal 2014, dovrà restituire all’azienda tutti gli stipendi - e la pensione - percepiti dal momento della sospensione del servizio. E dovrà anche pagare interessi e spese legali. 

Dipendente Atac dal 1970, licenziato nel 2000 per avere falsificato i fogli di presenza e avere abbandonato troppe volte il lavoro in anticipo, Claudio R. era stato reintegrato su decisione del Tribunale 8 anni più tardi. In primo grado, il giudice aveva anche condannato l’azienda a pagare le retribuzioni non corrisposte. Nel 2014 il dipendente aveva anche vinto in appello. Nel 2017, però, era arrivata la decisione della Cassazione: la sentenza era stata annullata, perché, sostiene la Corte, agli autoferrotranvieri non deve essere applicato lo Statuto dei lavoratori, ma una legge “speciale”, cioè il Regio decreto del 1931, in base al quale il licenziamento del dipendente risultava legittimo. Ora, la nuova sentenza d’appello: il pensionato viene condannato a restituire gli stipendi - 1.737 euro mensili, percepiti per 14 anni - e a sostenere le spese legali, pari a 14mila euro.

IL LICENZIAMENTO
Claudio R. ha iniziato la carriera all’Atac come conducente, per poi essere trasferito - per motivi disciplinari - al controllo dei titoli di viaggio. Alla base del licenziamento, diverse sanzioni e sospensioni: per «assenza arbitraria per un tempo superiore ai 5 giorni», «per non essersi attenuto alle norme che regolano lo stato di malattia». Come controllore, era anche accusato di avere commesso «una serie di gravi mancanze - scrivono i giudici - per rifiuto di osservanza di regolamenti e disposizioni aziendali, per aver alterato i cartelli di presenza, per avere abbandonato il servizio di verifica in anticipo rispetto all’ora di turno e, ancora, per essersi rifiutato di prelevare il blocchetto delle penali». I giudici sottolineano che «esaminando la relazione di staff e tutti i rapporti giornalieri, si evince come il ricorrente abbia reiteratamente violato le disposizioni organizzative del nuovo reparto di assegnazione, ostinandosi a voler mantenere, del tutto arbitrariamente, le modalità di servizio del precedente». Il reintegro deciso dal primo collegio dipendeva dal fatto che l’Atac non avesse allegato agli atti della causa tutti i verbali disciplinari. Il dipendente, assistito dall’avvocato Giuseppe Pio Torcicollo, inoltre, aveva sottolineato che la comunicazione di licenziamento non gli fosse stata correttamente notificata, circostanza che gli avrebbe impedito di difendersi in modo adeguato. Argomentazioni difensive che, per i giudici, non sono valide. Il Regio decreto, infatti, prevede il licenziamento di «chi, per azioni disonorevoli od immorali, ancorché non costituiscano reato, si renda indegno della pubblica stima» e anche di chi «scientemente e per qualsiasi motivo, altera o falsifica biglietti di viaggio, o altri documenti di trasporto o di servizio appartenenti all’azienda». Nella sentenza si legge che, in effetti, «la condotta complessiva rende il lavoratore non meritevole di stima»: si è opposto in modo «arbitrario» alle direttive aziendali, non ha rispettato l’orario di lavoro e ha alterato documenti di presenza, «con pervicace e sfrontata ostinazione».
Una decisione contro la quale si schiera l’avvocato Torcicollo: «Per effetto dei tempi lunghi della giustizia italiana e, soprattutto, per effetto dei “cambiamenti di rotta” della Cassazione, un dipendente è oggi costretto a restituire centinaia di migliaia di euro di stipendi percepiti dopo aver vinto in due gradi di giudizio. I mutamenti interpretativi della Cassazione non dovrebbero applicarsi alle situazioni già decise nei gradi precedenti di giudizio, soprattutto in considerazione dei lunghi tempi di attesa fra un grado e l’altro».

 
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